La fine delle vacanze ci riporta alla nostra vita abituale, che sia scolastica o lavorativa poco importa. Un periodo di riposo è appena finito e i nostri doveri ci attendono. Questo ci porta a lamentarci del piacere a cui dobbiamo rinunciare a favore del dovere che ci attende; eppure c’è una parte di noi che sembra non esserne così dispiaci.
Tornare alla nostra routine significa reinserirci in un sistema a noi familiare, fatto di luoghi e abitudini che si ripetono di settimana in settimana, che favorisce uno scorrere del tempo quasi impercettibile.
Più è rigida la routine, più le settimane saranno uguali a sé stesse, rendendole difficili da distinguere l’una dall’altra. Guardandoci indietro ci stupiamo di come i mesi siano scivolati via, senza che ce ne accorgessimo.
La memoria d’altronde è un sistema basato su di un economia prettamente utilitaristica (Baddeley, Hitch 1974)
Perché accade? Una situazione sempre uguale distorce la nostra percezione del tempo.
È naturale che resti alla mente ciò che spezza la nostra routine. Ricordiamo con più facilità un bel tramonto sulla spiaggia durante una vacanza rispetto ad un lunedì mattina qualsiasi.
Questa tendenza, che contribuisce ad elevare lo stato d’ansia, dando la sensazione di non sapere gestire il tempo in maniera proficua, è paradossalmente favorita da uno dei meccanismi di ricompensa dell’ansia: tutto ciò che contribuisce a mantenere una abitudine stabile viene vissuto come prevedibile e quindi in qualche modo rassicurante, persino quando si tratta di situazioni stressanti o in altro modo spiacevoli.
Questo meccanismo viene chiamato omeostasi (Clarici 2014) ovvero la ricerca del mantenimento della situazione attuale, il più possibile simile a se stessa opponendosi attivamente ad ogni possibilità evolutiva del soggetto.
Questo fa intuire quanto insidiosi possano essere i meccanismi ansiosi, dannosi e rassicuranti allo stesso tempo, rendendo difficile emanciparsene. Un po’ come succede con un partner abusante che dopo essere stato violento si scusa e riempie di promesse d’amore.
Questo legame ambivalente diviene così importante per il funzionamento del soggetto che, al fine di difendere questo equilibrio omeostatico,
il nostro inconscio è pronto ad attivare elaborate difese che possono andare dall’intellettualizzazione (Laplanche, Pontalis 2010) sino alla vera e propria negazione di un problema (Laplanche, Pontalis 2010).
Possiamo dirci che non è il momento giusto per fare un cambiamento, adducendo motivazioni apparentemente molto razionali e prudenti. Oppure rifiutarci di vedere il beneficio che può derivare dalla possibilità di evolvere. Ognuno declina a proprio modo, ma tutti sono accomunati dal rifiuto del cambiamento senza accorgersi di come questo, nei casi peggiori, voglia dire costruirsi con le proprie mani una gabbia fatta di infelicità e insoddisfazione.
Un posto di lavoro degradante, un corso di studi che non risponde alle attitudini della persona sono realtà oggettivamente dannose, se non tossiche con una forte carica anti-evolutiva. Eppure molte persone non fanno apparentemente nulla per cercare di emanciparsi da esse. Ogni volta che una spinta evolutiva si affaccia alla coscienza viene subito soffocata da dubbi e incertezze, che facendo leva sulla poca sicurezza in sé scardinano ogni possibilità di proseguire nel percorso di costruzione del soggetto (soggettivazione v. Cahn 1998; 2010). Un percorso che ci dovrebbe accompagnare dall’adolescenza per tutto il nostro percorso di vita.
Non sorprenderà scoprire che ci sono ambienti di lavoro costruiti su una struttura perversa atta a sfruttare questa tendenza umana all’omeostasi proponendo condizioni di lavoro e/o retribuzione squalificanti per il professionista, ma che essendo facilmente disponibili attraggono soprattutto i giovani che si lanciano nel mondo del lavoro offrendo una posizione che garantisce il minimo per sopravvivere, ma che poi può diventare difficile lasciare in quanto crea una falsa sensazione di sicurezza e stabilità, dalla quale è così difficile staccarsi per provare a realizzarsi senza rendersi conto spesso che si stanno lasciando scivolare gli anni e le opportunità.
Quando poi si prende coscienza della necessità di cambiare sarà difficile riuscire a svincolarsene spaventati dalla perdita di sicurezza, questa è una paura atavica che nasce nell’infante il quale temendo di perdere il seno materno lo cerca e vi si aggrappa anche quando non è mosso dalla fame in cerca del conforto dato dall’assicurarsi che sia ancora lì a disposizione e che non abbia quindi nulla da temere.
Se questo bisogno di rassicurazione, nel piccolo, costituisce una difesa adattiva che cementa il rapporto con la madre, nell’adolescente e nell’adulto è un ostacolo. Come tutte le difese che persistono dopo che lo stimolo spaventante che le ha generate è stato affrontato anche questa muta in un tratto di personalità disadattivo su cui è bene lavorare se ci si vuole rincamminare nel percorso verso la ricerca della felicità che deve caratterizzare la nostra intera esistenza in quanto ideale al quale cercare costantemente di avvicinarci.
La tendenza di fronte a questo tipo di sfide con noi stessi è quella di cedere all’idea che tanto le cose sono e saranno sempre così e non c’è nulla da fare per cambiarle.
Ecco che quella sensazione di falsa sicurezza tanto difesa ha portato i suoi peggiori frutti.
Molti pazienti arrivano in terapia nel mio studio in questo stadio di ansia e infelicità.
Ma se vi è la certezza di non poter fare nulla per essere felici, allora perché le persone vanno in terapia?
Perché, anche se non ancora consapevoli, hanno trovato una spinta a prendersi la responsabilità della loro felicità.
Se alimentata, questa fiammella, potrà emergere in superficie rendendola disponibile alla coscienza. Ciò permette alla persona di prendere consapevolezza del desiderio di cambiare e gettare le basi affinché questo volere si trasformi in un potere: cambiare vedendosi sotto una nuova luce.
Sentirsi di avere un ruolo attivo nella propria vita può rivoluzionare il modo in cui si vive il quotidiano. I medesimi eventi possono essere finalmente vissuti come manifestazione della propria agency (Bandura 1997) ovvero la capacità di incidere sul proprio mondo.
Il locus of control (Bandura 1997) (dove si colloca ciò che dirige la nostra esistenza) si sarà spostato quindi dall’esterno all’interno e ci si potrà sentire agenti del proprio destino invece che passive vittime di un fato immutabile.
Questa è la base sulla quale si potrà poi lavorare a ribaltare la visione a imbuto con cui sono arrivati.
Spezzare questo meccanismo così complesso e ben oliato costituisce una scelta ed un percorso affatto banali. Basti pensare a quante persone preferiscono restare in una situazione miserevole, ma ben conosciuta, piuttosto che avventurarsi per nuove strade.
“It’s better the devil you know” – è preferibile il diavolo che conosci – dicono gli inglesi, con una efficace sintesi.
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Bibliografia e sitografia dell’articolo “Ansia e routine”
Aloisi A., Biagioli B., Di Gioacchino A., Nemu Henrich A. Adolescenti nella rete, una prospettiva gruppale https://www.funzionegamma.it/adolescenti-nella-rete-una-prospettiva-gruppale/
Baddeley, A.D., & Hitch, G. Working memory. In G.H. Bower (Ed.), The psychology of learning and motivation: Advances in research and theory (Vol. 8, pp. 47–89). New York, Academic Press, 1974.
Bandura, A. (1997), Autoefficacia: teoria e applicazioni. Tr. it. Edizioni Erickson, Trento, 2000.
Cahn R. (1998). L’adolescente nella psicoanalisi. L’avventura della soggettivazione. Roma, Borla, 2000.
Cahn R. Una terza topica per l’adolescente? pubblicato in AeP Adolescenza e psicoanalisi. anno V, n. 1, pp.19-35, Roma, Magi, 2010.
Clarici A. Teoria e ricerca in psicoanalisi. Commentario di Psicoanalisi Contemporanea per lo studente di Psicologia e di Medicina, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2014.
Laplanche J., Pontalis J.B. (1967). Enciclopedia della psicoanalisi, Tomo secondo. Bari, Laterza 2010.